Intorno a me, in famiglia, tra gli amici, ancora c’è chi non ha capito la mia scelta: e non posso davvero dar loro torto.

Ero un manager presso la sede italiana di una multinazionale belga della sanità. Avevo un sacco di benefici: non solo viaggiavo per tutta l’Italia ma lo facevo in un ambiente stimolante (l’ambiente della sanità lo è, con la possibilità di incontrare professionisti di elevata caratura) e con tutti i confort possibili. L’auto aziendale, qualsiasi tipo di rimborso..pensate che esiste(va) una voce aggiuntiva, una sorta di gettone giornaliero che inserivamo in nota spese ogni volta che incontravamo un cliente o un potenziale tale (l’avevo soprannominato il “rimborso-cravatta”).

Il lavoro era interessante.

Si trattava di supportare da un punto di vista tecnico-commerciale gli agenti ed i venditori dell’azienda della fase di pre-gara (dal momento che erano quasi tutte gare pubbliche) fino all’aggiudicazione ed al successivo sopraluogo per il passaggio di consegne al Project Manager che poi avrebbe dovuto risolvere i problemi “reali”. Un lavoro che, dopo poco meno di 10 anni, era semplice, facile ed in cui mi sapevo muovere bene.

Lo stipendio era molto buono e questo mi aveva consentito di metter su una splendida famiglia, in un bellissimo posto per vivere.

Ma non mi soddisfaceva appieno.

Non so bene perchè: probabilmente, ed era la cosa che più sentivo stonata, per l’assenza di effettivo riconoscimento e per l’impossibilità di costruire un reale rapporto umano con il diretto superiore, persona molto vocava alle manovre politiche piuttosto che al far crescere le persone “sotto” di lui. E che si prendeva i meriti, scaricando le responsabilità.

Quello che più mi mancava era la possibilità di crescere: a sentire il mio capo, ero bravo in quello che facevo, ed ero così funzionale all’organizzazione in quel posto. Ma non mi bastava. Desideravo di più, decisero imparare cose nuove, volevo mettermi alla prova in campi differenti, in scenari diversi.

E non mi decidevo.

Finché l’Universo, anche in un modo piuttosto inaspettato, ha deciso di prendermi sul serio.

Era la sera dell’8 dicembre, stavo cambiando il mio primogenito (attuale, perchè allora era figlio unico) di quattro anni, e gli stavo raccontando che sarei ripartito per Milano l’indomani, ma che sarei tornato, come al solito, nel giro di 4 giorni. All’improvviso, come il classico fulmine a ciel sereno:

– “Babbo, perchè non ti compri un distributore di benzina?”

– “Che idea strana, Amore, e perchè dovrei?”

– “Perchè così torni a casa tutte le sere”.

Non sono stato mai pugnalato al petto, ma credo che la sensazione possa essere molto simile a quella che provai: un misto di senso di colpa, timore della perdita, vanificazione degli sforzi….insomma un dolore pazzesco, ed il pensiero, nitido: “perchè lo stò facendo?” Perchè continuo a non provare soddisfazione in quello che faccio, e per giunta con il rischio di perdere mio figlio?

L’ho addormentato, con gli occhi lucidi, poi ho acceso il portatile ed ho di getto, immediatamente scritto la lettera di licenziamento. L’indomani la consegnavo all’Ufficio Risorse Umane della multinazionale belga, tra lo sbigottimento dei miei colleghi e l’incredulità dei miei familiari.

Eppoi….ci vediamo alla prossima!!

 

P.S: la foto è bellissima,  presa in prestito dalla copertina di un album di Fabrizio Moro, l’Inizio. Non lo conosco, e non l’ascolto assiduamente…ma la foto è molto bella, ed il testo interessante.